2024. 07. 11.
Attila Jozsef: Ode
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Attila Jozsef: Ode

 

 

 

 

 

 

 

Attila Jozsef: Ode

 

                        1


Sto seduto qui, sul dirupo scintillante.
La brezza lieve
dell'estate novella alita,
come il calore di una cena invitante.
Cerco di abituare il mio cuore al silenzio.
Non è tanto difficile –
qui si affluisce, ciò che era svanito,
si reclina la testa
la mano è abbandonata.

Guardo il costone dei monti –
ogni foglia riflette
la luce della tua fronte.
Per le vie non v’è nessuno, nessuno,
vedo la tua gonna
sollevarsi dal vento.
E sotto le fronde fragili,
vedo cascar’ avanti i tuoi capelli,
sussultare i tuoi seni e
- come il ruscello Szinva fugge via –
rivedo, come nasce
sui rotondi sassi bianchi,
sui tuoi denti, la tua angelica risata.

 

                       2


Oh, quanto ti amo,
tu, che nei più profondi meandri del mio cuore
hai indotto ugualmente alla parola
la solitudine insidiosa, tessitrice dei tranelli,
e l’universo.
Tu, che ti stacchi da me come la cascata
dal proprio fragore, e scappi via piano,
finché io, tra le vette della mia vita,
nella vicinanza del remoto, tuono, grido,
tribolando per mare e per cieli,
come ti amo, dolce matrigna!

 

                      3


Ti amo come il bimbo la madre,
come i propri silenzi le fosse cupe,
ti amo come le sale la luce,
come l’anima la fiamma, il corpo la quiete!
Ti amo come amano la vita i mortali,
finché la morte non sopraggiunge.

Custodisco ogni tuo sorriso, movenza,
parola, come gli oggetti caduti, la terra.
Come l’acido nei metalli, così ti ho incisa
con i miei istinti nella mia mente,
tu, incantevole immagine bella,
dove il tuo essere tutto l’essenziale riempie.

Strepitando passano i momenti,
ma tu sei seduta, muta, nelle mie orecchie.
Si accendono e cadono le stelle,
ma tu sei immobile nei miei occhi.
Il tuo sapore, come il silenzio nella grotta,
raffreddandosi aleggia nella mia bocca,
con le sue venature fini,
a volte intravedo la tua mano,
posata sul bicchiere d’acqua.

 

                        4


Oh, di che materia son fatto io,
se mi taglia, mi foggia il tuo sguardo?
Che sorta di materia e di luce,
che prodigio degno di stupore
che mi permette nell’inezia della nebbia
di percorrere le fertili lande del tuo corpo?

E come il verbo s’è dischiuso alla ragione,
nei suoi arcani posso discendere!...

I circoli del tuo sangue, come cespugli
di rose fremono senza riposo.
Trasportano la corrente eterna,
per far sbocciare l’amore sul tuo viso,
e il tuo grembo abbia il frutto benedetto!
Tessono le mille radicine ricamando
il suolo sensibile del tuo stomaco,
legando e disfacendo i nodi sul filo delicato –
ché la cellula del tuo nettare raccolga tanta schiatta,
e i bei cespugli del tuo polmone frondoso
stormiscano la propria gloria!

La materia eterna felicemente avanza
nelle gallerie delle tue viscere,
la scoria acquisisce una vita ricca
nei pozzi bollenti dei reni operosi!
Sorgono colline ondulate,
dentro di te tremolano costellazioni,
si sommuovono i laghi, lavorano i cantieri,
brulicano milioni di animali vivi,
insetti,
alghe,
la crudeltà e la bontà;
splende il sole, la luce floreale velata s’incupisce –
nella tua sostanza vaga
l’inconsapevole eternità.

 

                        5


Come grumi di sangue coagulati,
cascano davanti a te
queste parole.
L’esistenza balbetta,
la sol cosa chiara è la voce della legge.
Ma i miei organi alacri,
da cui rinasco giorno dopo giorno,
per la quiete si stanno preparando.

Ma fin allora gridano tutti –
tu, eletta tra la moltitudine
di duemila milioni di persone,
tu l’unica, tu culla morbida,
tomba forte, letto vivente,
accoglimi dentro di te!

(Com’è immenso il cielo d’alba!
Schiere brillano nei suoi metalli.
Mi offende gli occhi questo gran bagliore.
Son perduto, penso.
Sopra di me sento un batter d’ali,
è il battito del mio cuore.)

 

                       6


         (Canto marginale)


Mi porta il treno, ti seguo,
forse entro oggi ti troverò,
forse questo viso ardente si placa,
e in silenzio mi dirai qualche parola:

Scorre l’acqua tiepida, fatti il bagno!
Per asciugarti eccoti l’asciugamano!
La carne si cuoce, ti placherà la fame.
Dove io giaccio, è là, il tuo letto!)

 

giugno 1933

 

Traduzione: Ibolja Cikos

 

 

Nel caso di Attila Jozsef, il ritmo della poesia ha un ruolo fondamentale. Lui stesso ha scritto vari saggi sull'argomento. Il ritmo ha un ruolo cardinale nelle poesie già di per sé, anche se non ha sostanza, ed è impalpabile, rimanendo sempre indecifrabile. Cosa che deriva dalla natura della melodia e del ritmo, che riescono a raggiungerci in un modo diretto, senza la mediazione delle parole, che sarebbe anche impossibile.

Nelle poesie di Attila Jozsef mi lascia sempre senza parole che, quando leggo i testi, e le sue immagini rappresentate in essi, ho sempre la sensazione - e questo mi stupisce di continuo - di aver ritrovato qualcosa che in qualche modo sapevo da sempre, ma non riuscivo a trovarlo pur cercando dappertutto, oppure vagando invano intorno al concetto, al fenomeno. Ho sempre la sensazione, quando leggo i suoi testi, di aver ritrovato una verità che conoscevo da sempre, ma che non avevo mai riconosciuto. Come se le immagini, messe insieme da lui, ci appartenessero da sempre, soltanto che noi non riusciamo a vederle. Quindi è come se lui soltanto ce le mostrasse. Mettesse in luce, in rilievo, la natura delle cose.

 

Come per esempio in questo passaggio:

 

"Ti amo come il bimbo la madre,
come i propri silenzi le fosse cupe,
ti amo come le sale la luce,
come l’anima la fiamma, il corpo la quiete!
Ti amo come amano la vita i mortali,
finché la morte non sopraggiunge."

 

Sembra che i concetti descrivano due cose che ci appartengono da sempre con un amore profondo, così profondo che, quando leggiamo le strofe, riconosciamo che sono due cose che sono in realtà inseparabili, perciò le immagini di questo passaggio descrivono un amore molto intimo, molto basilare, evidente, fra due cose che in realtà sono un tutt'uno: il silenzio e la fossa, le sale e la luce, l'anima e la fiamma, il corpo e la quiete.

 

Poi racconta il furore silenzioso dell'innamorato:

 

"Tu, che ti stacchi da me, come la cascata
dal proprio fragore, e scappi via piano,
finché io, tra le vette della mia vita,
nella vicinanza del remoto, tuono, grido,
tribolando per mare e per cieli [...]"

 

Vorrei soffermarmi su un ultimo particolare della poesia, perché è molto importante. Si snoda più evidentemente nel passaggio che comincia con questa frase:

 

"E come il verbo s’è dischiuso alla ragione,
nei suoi arcani posso discendere!..."

 

Il corpo della donna diventa il luogo dove l'universo stesso si rivela. L'essere fisico della donna, la sua fertilità, e non solo, ma tutta la sua fisicità e il modo in cui funziona il suo corpo diventano il luogo dove l'universo e il divino, il verbo della Bibbia, si dischiudono per il poeta e lui discende in questo mistero. Nel mistero dell'esistenza, della vita.

Così il testo è un'ode per la donna amata, ma insieme a lei, in lei, è anche un'ode alla vita, all'esistenza, al mistero dell'universo, al divino.

Sprofondando nell'essere della donna, sprofonda nell'universo, nel mistero dell'universo.

 

 

Irisz Maar © luglio 2024

Revisione e correzione: Anna Cavallini


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