2024. 03. 14.
La logica oppressiva e violenta di Auschwitz
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La logica oppressiva e violenta di Auschwitz

Questa settimana parliamo del libro ungherese per cui è stato conferito allo scrittore il premio Nobel nel 2002. Si tratta di Essere senza destino di Imre Kertész, nella traduzione di Barbara Griffini.

Nel caso di questo libro è ancora più fondamentale del solito la questione della traduzione, perché la particolarità del libro consiste proprio nel testo, tramite cui si configura un senso che è molto significativo e importante e che si contrappone ai sistemi totalitari.

Il protagonista è Gyurka, un ragazzo ebreo che vive a Budapest ai tempi in cui l'ideologia che ha preceduto la Seconda guerra mondiale ormai si è affermata. Si deve mettere le stelle gialle e cominciano le deportazioni. Gyurka viene portato a Buchenwald. Il libro storicamente è importante ed interessante, perché da una parte leggiamo le testimonianze di uno che è sopravvissuto a questa esperienza, dall'altra parte invece parliamo di un testo minuziosamente creato per contrapporsi ai sistemi autoritari di cui l'autore e il suo protagonista sono stati vittime.

Come e perché si oppone ad un sistema totalitario con un linguaggio unico che si sta realizzando mentre leggiamo le righe? E che vuol dire esattamente che il linguaggio si sta realizzando nel momento? Qual è la sua peculiarità?

Péter Szirák, studioso ungherese, è dell'opinione che - e io credo che questo sia il pregio più significativo del romanzo - Essere senza destino apra una strada per ripensare e reinterpretare i modi in cui parliamo della Seconda guerra mondiale e dell'olocausto. In che modo?

Ognuno, in circostanze normali, ha una voce propria che non è confondibile con la voce di nessun altro. Il modo di parlare, ragionare, le parole che una persona usa, la tonalità e così via. E questa nostra voce unica dovrebbe renderci subito distinguibili. Essere senza destino si dischiude tramite la voce del protagonista, la voce in prima persona singolare.

Allora qual è il nesso tra l'olocausto e la voce propria e irripetibile? László Földényi, studioso ungherese, riflette su tutto ciò. Un funzionamento delle ideologie dei sistemi totalitari e collettivisti si realizza tramite una voce unidirezionale e unificante imposta sul pubblico, e così imposta sulle persone. La sua base è la discriminazione, senza dubbio. Ma come funziona questa discriminazione? Cerca di classificare e riunire tutte le persone in base a un unico concetto astratto. E se questo riesce ad avvenire, costruiamo la nostra personalità sotto la lente convergente di un concetto imposto su di noi. La conseguenza di tale avvenimento e comportamento è che diventiamo in un certo senso sostituibili all'interno di questo insieme. E molto probabilmente, quando cerchiamo di scappare da quest'ideologia, ci definiamo in base al suo concetto opposto, che comunque rimane sempre un concetto, un'ideologia. Così però rimaniamo sempre, in quel certo senso, sostituibili. E perdiamo la possibilità di avere la nostra identità nel senso della parola. Saremo privati della nostra identità. Della nostra voce.

Allora come si oppone il libro a tale aggressione, e in che modo tenta di fuggire dall'essere la merce, la vittima di un discorso del genere? Cerca di creare un linguaggio molto unico, abbastanza complesso, cercando di avvicinarsi alla realtà il più possibile, lottando in questo modo contro il linguaggio autorevole del sistema che insiste nel rivendicare che la sua logica sia quella valida, ma, probabilmente, ben lontana dalla realtà, che già di per sé è difficilmente raggiungibile con le parole, in quanto alla fine ci sfugge sempre di mano, nonostante ogni sforzo.

Il linguaggio del protagonista ha "una finta omogeneità", come conferma György Spiró, scrittore ungherese. Sembra, al primo impatto, che sentiamo il racconto di un quindicenne, però, quasi impercettibilmente, la sua voce comincia subito a frammentarsi in diverse prospettive e sentiamo una certa atonalità. Da un punto di vista c'è il ragazzino che sta facendo questa esperienza orrenda, che comunque non comprende, anzi, a volte sembra troppo ingenuo, e nello stesso tempo sbuca ripetutamente la voce di una persona matura, anziana, che guarda tutti questi avvenimenti in retrospettiva e ha già interpretato tutto. Un frammento di voce con le esperienze dei campi di sterminio. Qua, da questa prospettiva, riesce a scaturire l'ironia, a volte addirittura maliziosa, come per esempio la scena dove la famiglia ebrea sta rabberciando la stella gialla sul vestito, come evidenzia György Spiró. Ironia di cui il ragazzino, che sta comprendendo pian piano cosa sta succedendo, non sarebbe ancora capace. E l'ironia ha un ruolo fondamentale, generalmente, ma qua ancora di più, perché sposta il discorso verso un'altra direzione, anzi, addirittura, in un istante, mette tutto in un'altra prospettiva, diversa da quella che il discorso ha previsto. Oltre a queste caratteristiche il romanzo ha il sapore di un diario. Ma dobbiamo porci la domanda: come si potrebbe scrivere un diario in un campo di sterminio? A volte il narratore si fa scoprire. Per esempio, non coglie le relazioni evidenti tra le cose, altre volte invece ci presenta la logica di Auschwitz, che ha esercitato violenza su di lui, come se ciò fosse evidente, scontata.

Come afferma György Spiró, il testo in un modo astuto, scaltro nasconde il fatto di essere creato così minuziosamente, e ci fa credere che siamo testimoni di un'esperienza che si sta appena svolgendo.

La lingua e il linguaggio, quindi, possono diventare un potere. Come afferma Kertész stesso, è questo che distingue il poeta, lo scrittore: non si rassegna. Squarcia la lingua, la riapre. Si oppone.

La tira il più possibile per tentare di parlare della realtà, fuggendo così in un luogo dove non sarà più possibile attirarlo in trappola, perché il linguaggio è tirato fino a tali estremi da scivolare oltre la materialità della lingua, o meglio, dove la materialità della lingua non riesce ad arrivare.

Molto probabilmente il frammento di voce che fa ricordare i ragionamenti di un anziano che ha vissuto le esperienze nei campi di sterminio può essere interpretato come un autosarcasmo e un'autoaccusa amari.

È qua che si scopre il senso del titolo. Che vuol dire essere senza destino? Da una parte possiamo interpretarlo come se il protagonsita e le vittime sarebbero stati privati del proprio destino e gli sarebbe stato imposto un altro. Ma vuol dire anche che l'autore e il narratore si ribellano contro questi sistemi che hanno imposto un destino su di loro, ma si ribellano anche contro se stessi, perché lo hanno permesso. Vogliono essere proprio senza destino. Perché non sia tutto predeterminato. Perché possano scegliere loro.

Perché possiamo scegliere noi.

Insieme a tutto ciò, il libro fa vivere palpabilmente quest'esperienza, quindi anche come storia è sconvolgente e struggente, e riesce a dare tanto. Mentre si tratta di un testo creato in modo talmente accurato, in realtà parla delle sensazioni e dei vissuti autentici, inoltre dell'effetto, anche psicologico, di tutto ciò.

Lascio qua un ricordo personale collegato a questo romanzo. Al campo di concentramento, Gyurka, un giorno in cui soffriva particolarmente la fame, vuole chiedere aiuto a una persona. Questa persona però parla in francese. Quindi come si potrebbero capire? Gyurka, per fortuna, ha studiato francese a scuola. Ma lo aveva sempre odiato. In quel momento, però, ha avuto una rivelazione: niente di ciò che impariamo è inutile, anche se non ci piace in quel momento, perché non possiamo sapere se non sarà proprio quella cosa a salvarci la vita, o, aggiungo io, non possiamo sapere se non sarà proprio quella capacità o conoscenza che ci farà cambiare la vita o se ci aprirà delle strade nuove. Me la sono tenuta questa parte del libro - insieme a tante altre cose rappresentate in esso - e la porto sempre con me.

Allora, per cominciare, come possiamo opporci ad un potere opprimente o a qualsiasi sistema che cerca di uniformare, in un modo o l'altro, le persone? Possiamo crescere interiormente, arricchirsi, cercare di conoscere più cose possibili, anche diversissime fra di loro, imparare, fare esperienze, creare la nostra identità unica e irripetibile.

 

Irisz Maar © marzo, 2024

Revisione e correzione: Anna Cavallini


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